
Storia della Casa Grotta
Estratto dal Capitolo III del Libro
“La Storica Casa Grotta di Vico Solitario – Riscoperta e studio di una contrada a Matera”
di Angelo Fontana
© Testi: Angelo Fontana
© Disegni e Fotografie: Autori
© 2018 – Edizioni Giannatelli – Matera
ISBN 9788897906551
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3.1 Storia della casa – grotta (1571-1956)
La storica casa grotta di vico solitario, è ubicata al civico 11 dell’omonima via (già Contrada di Santo Agostino). La sua antichità documentaria può essere fissata già all’anno 1571. Da un rogito notarile, del Notaio Giocolano Nicola di Matera, Angelo di Antuono d’Angiulo promette in sposa sua figlia Rosa, a Silvestro Dominici de ferrandina e gli conferisce la dote. (fig.46) Tra le varie cose, le assegna “una casa sita et posta in Santo agustino con cienzo di grana 10 a Santa Lucia colluso della piscina iuxta la casa di Santa Lucia iuxta la casa di Santo Francesco con la terza parte alla piscina di lo monasterio di Santa Lucia”.
Nel 1591 Silvestro Dominici de ferrandina, venderà “domu una sita in caveoso in pittagio Sancti augustini iuxta domu Conventi Sancti Francisci iuxta domu Jacobi De duera a parte superiori cum cenzo dece monasterio Santa Lucia” a favore di Donatello deceto alias marascella.
Nella Platea dei beni di S. Lucia dell’ordine di San Benedetto di Matera dell’anno 1598, tra le proprietà di case, compare: “possiede detto Monasterio nella sopradetta Contrada di Santo Agostino in casal novo, qual è Grange di esso Monasterio di S. Lucia una Grotta senza ciminiera con uno foggiale dentro et con una cisterna avanti detta casa iuxta la casa di Angelo Ciaurello dotale, e iuxta la casa di Donatiello Marascella, e la strada , franca, e libera”. Inoltre compare tra i cenzi perpetui ricevuti dal Monastero “Donatiello Marascella per cenzo perpetuo di una casa rende grana diece”. Per la proprietà del Monastero, si tratta della casa confinante con quella di Donatello Marascella, per il cenzo perpetuo che il detto conferisce, riguarda la casa oggetto di studio.
Nel 1602, il Clerico Joe Donato Marascella, riceve da suo fratello Donatello alcuni beni, tra questi “domu una gripta sitam in casali novo in pittagio Sancti Augustini iuxta domu Monasteri Santa Lucia iuxta domum diruta Conventi Sancti Francisci et alias fines …”.
Nel 1622 detto Clerico, devolverà l’abitazione a sua nipote Leonarda Spataccio, per il suo matrimonio con Cesare Zagarello suo futuro marito, come da carta dotale. Ventidue anni dopo, sarà stipulato il contratto matrimoniale tra Gratia Zagarella e Jacobum de Fazio. La novella futura sposa riceverà, quindi, lo stesso bene ricevuto a suo tempo da sua madre, che le trasferirà suo padre Cesare.
Gli sposini abiteranno nella stessa casa dotale, e concepiranno una figlia di nome Nunzia. Due anni dopo il matrimonio, da un atto notarile rogato dal Notaio D’Ercole Vito Nicola, si apprende che Giacomo Fazio, resta vedovo e deve inventariare i beni lasciati dalla moglie, a favore della propria figlia minorenne. I beni sono ricevuti da Cesare, e Sario Zagarello nonno e zio di Nunzia Fazio per garantirle il minimo dotale.
Nel 1671 Nunzia Fazio era già sposata con Antonio Volpe. Senza aver stipulato una carta dotale, hanno due figli piccoli, un maschio e l’altra femmina. E per essere cosi poveri da non avere un letto e “colcati in terra”, decidono di stipulare un patto di retrovendita con Luca di Maso riguardante la casa dotale “partim lamia partim gripta in piscina, intus camino” ed altre comodità per ducati quaranta. (fig.47)
Nel 1675, Luca di Maso sposerà sua figlia Livia. Nel contratto matrimoniale, stipulato dal Notaio Recco Fracesco Antonio, Livia de Maso sarà promessa in sposa, a Partemio de Chico alias Citogna. Nella lista dei beni attribuiti alla sposa, compare: “una casa parte lamia, e parte grotta con sue comodità, sita al Sasso Caveoso di detta Città al pittagio di santo Agostino, iuxta …” con rendita d’un carlino a detto Monastero di Santa Lucia, e la condizione di far abitare nella detta casa la madre della sposa Domenica di Cotella, fino alla sua morte. Dal registro riguardante gli Stati delle Anime della Parrocchia di San Pietro Caveoso di Matera, datato 1678, nel Pittagio di S. Agostino si rilevano gli abitanti nella casa di Partemio di Chico con a capo Luca D’Angelo di Maso, marito di anni 26, Gratia di Carmenio d’Angelo moglie, di anni 32 e Domenica Contillo, madre di detto Luca di anni 63.
Nel manoscritto del 1682, riguardante la Platea dei beni del Convento dei Minori Conventuali della Chiesa di S. Francesco di Matera, la casa di Partemio compare confinante con i beni di San Francesco come dalle stipulazioni notarili citate.
Nel 1688 Partenio Citogna e sua moglie Livia de Maso, costituiscono a beneficio del monastero dell’Annunziata, un canone di annui carlini dieci e grana otto, su due grotte nel Sasso Caveoso, nella contrada di S. Agostino.
Nel 1694, la coniuge Livia Maso e Partemio Citogna, vendono la casa ad Angelo Grifo, e a Livia Roberto per il prezzo di docati trenta sei. (fig.48) Si rilevano nel 1697 abitanti della casa, Angelo Grifo marito di anni 47 e Navilia Robertis moglie di anni 52. Nel 1704 detti coniugi nominano erede e successore loro nipote, il Magnifico Notaio Alexio Grifo della Città di Matera, (fig.49) riservandosi il “jus habitationis” vita durante in detta casa. Nel 1707, la casa è abitata da Angelo Grifo, marito di anni 59 e Navilia Robertis moglie di anni 59. Il 3 febbraio 1708, Angelo Grifo fa il suo ultimo testamento: “personalmente siamo conferiti nella sua casa sita, e posta alla contrada di S. Agostino di Casalinovo, iuxta la casa del Convento di S. Francesco, via pubblica e altri confini, ritrovammo detto Angelo infermo di corpo, sano però di mente iacente nel letto”. Nel 1710, Navilia de Rubertis di anni 62, è vedova e vive da sola. Nel 1716 nella casa di Grifo, vive la famiglia Francione composta da nove persone: Nicolò Domenico Francione marito di anni 47, Giulia Maria moglie di anni 39, Carmenio figlio di anni 23, Giovanni Battista figlio di anni 19, Nunzio figlio di anni 15, Petronilla figlia di anni 14, Rosa Maria figlia di anni 12, Vit’Antonio figlio di anni 9 e Angela figlia di anni 5. Il 9 Settembre del 1722 il Clerico Ignazio Grifo, riceve dal padre Nunzio e dal fratello Alessio Grifo, alcuni usufrutti di case e terreni per ascendere al suddiaconato. Tra gli usufrutti che gli dona il fratello, vi è quello di una “casa parte grotta, e parte lamia posta nella Contrada di Casalnuovo di detta Città, ove si dice S. Agostino, …”.
Nel 1728, Donato Vito Fontanarosa acquista per docati novanta cinque di moneta d’argento, l’abitazione di Alessio Grifo, con il patto di far celebrare venticinque messe nella Chiesa della Mater Domini con l’affitto di docati quattro mensili a Francesco Staffiero marito di anni 63, Donata moglie di anni 63, Bellisario figlio di anni 24. Alla scadenza del fitto, Donato Vito andrà ad abitarci con la sua famiglia. Nello Status Animarum dell’anno 1731 dimoravano Donato Vito marito di anni 52, Leonarda moglie di anni 30, Giuseppe figlio di anni 27, Domenico Antonio figlio di anni 24, Saria Nicola figlia di anni 12, e Paschale figlio di anni 4. Dalla numerazione ostiaria di Matera dell’anno 1732, si apprende la professione di pastore di Donato Vito, e di possedere numero cinquanta pecore e altre dieci date a suo figlio. Nel febbraio del 1740, il Notaio Villani Cesare di Matera, redige il suo ultimo testamento “ci siamo personalmente conferiti in casa sua solita abitazione situata nella Contrada detta di S. Agostino Vecchio Sasso Caveoso, e abbiamo ritrovato il suddetto Donato Vito in letto giacente, infermo di corpo, sano di mente ha deliberato fare il suo ultimo testamento”. Nel 1744 nella loro abitazione, vivevano: Leonarda Carlucci vedova di anni 44, Pasquale figlio di anni 17, Francesco figlio di anni 11, Maria figlia di anni 9, Giuseppe figlio di anni 5. La vedova Lionarda, per sfamare li medesimi suoi figli, e per fare a medesimi le vesti necessarie, e per pagare alcuni debiti tiene bisogno di docati venti, non avendoli a disposizione, richiede un prestito al Rev. Sacerdote D. Francesco Torraca, dando in garanzia “una casa grande ereditaria di detto quondam Donato Vito Fontanarosa che fu suo marito, situata nel Sasso Caveoso di detta Città nella Contrada di S. Agostino Vecchio, vicino la casa del Venerabile Monistero di San Francesco dè Minori Conventuali, quella del Venerabile Monistero di Santa Lucia, ed Agata”.
Nel 1752, è stipulato il contratto matrimoniale tra Maria Josepha Fontanarosa, e Pascale Jannella. Maria Giuseppa ottiene “una casa, situata nella Contrada detta S. Agostino Vecchio, dalla parte di sotto le case degl’Eredi del quondam D. Francesco Torraca, via publica d’avanti, che si và, e si viene dalla Collegiata Chiesa del Rev. Capitolo di S. Pietro Caveoso, dalla parte d’oriente alla Solagna”. Nel Catasto Onciario di Matera datato 1754, si apprende che nella casa di Pascale Jannelli, abitano: Pascale Jannelli con sua moglie Maria Giuseppa Fontanarosa, Francesco Paolo Fontanarosa suo cognato d’anni 20, di professione pastore, Giuseppe Fedele Fontanarosa cognato pastore di anni 15, e Lionarda Carlucci loro madre di anni 47.
Nel 1782 i coniugi Pasquale e Maria, cambiano una casa parte fabrica, e parte grotta in Contrada di S. Agostino Vecchio, ossia Solagna di S. Pietro Caveoso, che attacca con una casa del Venerabile Convento di S. Francesco, altra di D. Partemio Cipolla, ed altri confini con una vigna di centinaja diciotto in circa, in contrada detta Carosiello vicino la vigna di Giuseppe Coretti, e altri precedentemente proprietà delle sorelle Andrisano Maria Xaveria, e Angela Nicola. Per stimare le dette proprietà, sono chiamati i periti. Furono interpellati, Eustacchio Martimucci Maestro muratore, e Michelangelo Martimucci Maestro cavamonte. L’abitazione è stata apprezzata per docati ottantadue, e grana quarantanove, e cavalli cinque.
Con un atto di donazione del 1787 le sorelle Andrisani, assegnano in usufrutto i loro beni al Chierico Don Vito Domenico Suglia, affinché possa ascendere agli Ordini Sacri e al Sacerdozio. Nel 1807 ne era proprietario. Il Suglia resterà possessore fino alla sua morte. Nel suo pubblico testamento, datato 2 dicembre 1846, istituisce suoi eredi universali in parti uguali i suoi nipoti figli del defunto suo fratello Antonio Suglia: Giacomino, Vincenzo, Francesco Paolo, Maria Giuseppa, Luisa e Camilla in tutto ciò che gli appartiene e gli potrà appartenere dopo la sua morte.
Dalle informazioni ricavate dai registri riguardante gli Stati delle Anime della Parrocchia di San Pietro Caveoso di Matera, degli anni 1854 al 1862, e dal catasto terreni, la casa è di proprietà del Sacerdote Don Vito Suglia, mentre dall’anno 1867 all’anno 1886, è appartenuta agli eredi di Don Giacomo Suglia.
L’ultimo atto notarile ritrovato è del 31 gennaio 1920. Il Signor Giuseppe Nicoletti fu Camillo ragioniere, e la Signora Rita Suglia fu Francesco Paolo (eredi di Don Giacomo Suglia), vendono al coniuge Vincenzo Tralli fu Simeone, e la moglie Maria Caterina Giangipoli, al prezzo stabilito di Lire duecento, una piccola grotta disabitata presso la Gravina, sita in questo abitato al Vico Solitario numero civico 11, confinante con Francesco Grieco, con altra grotta del Municipio e con la via.
Il 16 aprile 1956 l’ingresso della casa viene murato per l’ applicazione della legge n. 619 del 17 maggio 1952, sul risanamento dei “Sassi” di Matera, che prevedeva lo sgombero degli immobili dichiarati inabitabili per le precarie condizioni igienico sanitarie in cui si viveva.
Il Genio Civile di Matera, in nome e per conto del Demanio dello Stato, è autorizzato a occupare in maniera permanente l’abitazione, sita in Matera in vico solitario N. 11, superficie occupata in mq. 55,50, riportata in Catasto alla partita N. 7759, foglio di mappa 159 del Comune di Matera, particella N. 2202, intestata a Tralli Vincenzo fu Simeone per ½ ed usufruttuario per 5/2 e figli: Bruna, Simone e Giuseppe per il resto, indennizzandola con la somma di Lire 42.800.
Degli elementi costruttivi riportati dal verbale di consistenza, s’individuano le seguenti caratteristiche interne: struttura in grotta per il 70%, tinteggiatura in latte di calce, pavimenti in argilla, serramenta costituiti da una porta e due finestrini in legno di abete, assenza di acqua, assenza di fognatura, cucina: banco parzialmente rivestito, posizione mediocre, forma irregolare, esposizione mediocre (sud-est), grado di vetustà antico, grado di rifinitura discreta.
ANNO | POSSESSORI |
1571 | Rosa d’Angiulo |
1591 | Donatello deceto alias marascella |
1602 | Clerico Joe Donato Marascella |
1622 | Leonarda Spataccio |
1644 | Gratia Zagarella |
1652 | Nunzia Fazio |
1671 | Luca di Maso |
1675 | Livia de Maso |
1694 | Angelo Grifo e Livia Roberto |
1704 | Magnifico Notaio Alexio Grifo |
1728 | Donato Vito Fontanarosa |
1740 | Eredi di Donato Vito Fontanarosa |
1752 | Maria Josepha Fontanarosa |
1782 | Maria Xaveria e Angela Nicola Andrisano |
1787 | Chierico Don Vito Domenico Suglia |
1846 | Eredi di Don Vito Domenico Suglia |
1920 | Vincenzo Tralli e Maria Caterina Giangipoli |
1956 | Demanio dello Stato |
Tab. 8 Riepilogo dei passaggi di proprietà della casa grotta di vico solitario, già di Sant’Agostino al ………Casalnuovo dall’anno 1571 all’anno 1956.
Gli ultimi inquilini della casa erano in otto. La signora Lapolla Angela vedova Vizziello, di professione casalinga, con i suoi sette figli.
3.2 Architettura e organizzazione delle abitazioni
La storica casa grotta di vico solitario, (fig.60) è oggi un museo per il visitatore, dove è possibile comprendere la vita quotidiana, che un tempo era presente in tutte le grotte dei Sassi di Matera. Il suo allestimento rispecchia fedelmente il tipo di realtà abitativa descritta sia nei documenti d’archivio, che dai personaggi d’epoca della città.
I cronisti locali, descrivono le case dei sassi cavate nella pietra bianca, dove nell’interno sono presenti: “stalle, cisterne, fosse da tenere grano et altre biade” e “di formaggio, ò cacio” quest’ultime sono impermeabilizzate con “calcina tegole, di mattoni et bolo russo”. Le fosse o foggiali, mantengono alla “perfettione basta di dire, che vi si sia conservato sin à diece, dodeci, e quindeci anni, come se fusse stato in una cassa di legno”. Le abitazioni sono descritte: “fresche nell’estate, e calde nell’inverno”.
Da una statistica rivelata nel 1938 dall’Ufficio di Igiene del Comune di Matera, sono state censite 1641 abitazioni in grotta su 2997, pari al 54,85% del totale delle case dei rioni Sassi. La mortalità infantile rilevata era del 44,42%, ed era imposta dalle condizioni antigieniche dell’abitato.
Da un verbale dell’anno 1951, redatto dall’Ufficio Tecnico del Comune di Matera, riguardante le abitazioni dei rioni sassi, si descrivono le condizioni abitative. La grotta è chiusa nella parte anteriore con una parete di muratura, su cui si apre la porta d’ingresso (fig.52) con la sovrastante unica finestra, che serviva da illuminazione ed aereazione. La casa era abitata da una famiglia e gli animali da cortile e da lavoro. La maggior parte di esse, sono costituite da un solo vano. Al lato dell’ingresso, si trova la cucina (fig.53). Nella parte centrale vi era il letto matrimoniale con la sua coperta a righe rosse e blu (fig.54), i pochi mobili ed i cassoni per il deposito del raccolto. Negli ambienti scavati lateralmente, erano situate le “lettiere” per i figli adulti oppure dormivano sui cassoni. Infine, nella parte più profonda, opposta all’ingresso, c’era in genere la stalla per il mulo o l’asino (fig.55), che ogni contadino possedeva; spesso era separato dal resto dell’ambiente da un muretto di tufi. Il mulo, rappresentava il suo unico capitale, era il mezzo di trasporto e di lavoro nei campi. Oltre il mulo, erano presenti altri animali da cortile.
In un angolo della stalla, in apposite “fogge” (fig.56) scavate nella roccia, si depositavano le paglie per l’animale e per il lettime. Gli escrementi liquidi e solidi degli animali, si conservavano alcuni mesi, accumulandoli poi in alcuni sacchi per trasportarli nei campi.
Nell’interno di queste case, mancando del tutto ogni ventilazione, si aveva una costante umidità dovuta alle infiltrazioni e al vapore acqueo che si sviluppava dalla cucina, dalla stalla e dagli stessi abitanti, tanto che durante lo scirocco, si vedevano le goccioline d’acqua scorrere lungo le pareti e sul soffitto per poi cadere a gocce sul letto e sulle stesse persone che vi abitavano.
Nessuna casa era dotata di acqua potabile; ma quasi tutte hanno all’interno, sotto il pavimento, la cisterna. (fig.57) In essa, si raccoglievano le acque dei tetti o della strada sovrastante per gli usi domestici e per gli animali. Le cisterne, contribuivano ad aumentare l’umidità delle abitazioni.
In un angolo, erano depositati gli attrezzi da lavoro, come la zappa e l’aratro. (fig.58) Sulle pareti, erano appesi diversi altri utensili, come il setaccio per la farina e il tavoliere per impastare il pane. Non mancavano quadri, foto, e un trofeo in cartapesta del carro della Madonna della Bruna. Dal soffitto, sospesi, pendevano: peperoni, aglio, cipolle, meloni, collane di pomodori, ed anche qualche panno da asciugare.
Una tavola di legno, (fig.59) ospitava i commensali per un pasto costituito spesso da una minestra di legumi, o di pane raffermo con brodaglie chiamata “cialledda”, servita in un solo piatto di ceramica povero. La domenica il pasto era costituito da pasta fatta in casa, fatta con la farina di grano duro. Non poteva mai mancare il pane. Una grande forma da circa quattro o sei chilogrammi, era tagliata a fette dal padre e consegnata a ognuno, nelle giuste quantità. Come il piatto, anche il bicchiere per bere il vino era unico per tutti. A terminare il pasto quotidiano, un pezzo di formaggio o un frutto campestre. Non tutti si sedevano, i più giovani erano in piedi, gli altri si accomodavano o su di una sedia o su di un piccolo sgabello di fortuna “chiancodda”.
3.3 Il matrimonio e la carta dotale
Tra i costumi introdotti e lasciati dai longobardi, vi era fino ai primi decenni del Novecento l’uso del Morgincap o meffio ossia “il dono della mattina”, cioè la donazione, che faceva il marito alla moglie dopo la prima notte di nozze, d’una parte dei propri beni.
Il Volpe ne cita un esempio datato all’anno 1192. Il Verricelli nella sua Cronica del 1595-1596 ne descrive già le norme.
Nelle sette carte dotali esaminate risalenti tra il 1571 e il 1758, i notai ai quali i contraenti si rivolgevano per la stipulazione del matrimonio, tre annotano in testa al documento: secundo la costuma degli homini de la città di mathera et secundo la costumanza di longabardi vinencio. Questa formula che similmente si ripete anche in altri contratti dotali, rileva il memorabile rapporto culturale longobardo nella città di Matera.
Due altri notai annotano in calce: E promette, e s’obbliga detto sposo di non vendere i beni ricevuti, né barattarli ma tenerli e conservare ad uso, e comodo di detto matrimonio e questo sciogliendosi senza figli legittimi, e naturali, e che non giungessero all’età d’anni diciotto secondo la Costumanza di questa Città in cui vivesi per legge Longobarda che v’obbliga restituirli alli loro eredi e successori.
Un esempio di tale norma applicata negli atti notarili relativi al seguente studio, si riferisce a Giacomo Fazio della città di Matera che elenca un inventario dei beni lasciati dalla moglie quondam Grazia Zagarella a favore della propria figlia minorenne Nunzia. Infatti, il vedovo Giacomo restituirà alla famiglia della moglie i beni dotali che custodiranno per detta “pupilla”.
3.3.1 Il corredo nuziale
Il letto e il suo arredo
Delle sette carte dotali esaminate, tre sono datate al Settecento e riportano la trabacca o la lettiera. In due casi non è stata donata materialmente ma è versata una somma in denaro di carlini venti affinché i futuri coniugi possano acquistarla. La donna riceveva un matarazzo o un saccone riempito di lana d’Ischia alcune volte nuovo altre volte usato. Inoltre, un paio di lenzuoli cuciti amazietella e decorati con reticelle. Una cultra o coverta, decorata di solito con francia attorno o a fasce. Negli atti tra il 1675 e il 1758 è presente un giraletto di tela di casa con rezze o con cordicella attorno. Altro elemento che non mancava quasi mai era uno sproviero o padiglione di pezzi quattordici o sedici, a rindiello di gravina o cosuto amazitella. I cuscini erano sempre in quantità di due paia, solo in un caso nel numero di sei. Il tessuto descritto: di tela di fiume o di casa oppure d’Andria, o di seta rossa. Assieme ai cuscini vengono descritte le federe, chiamate investitori cusiti a reticelle oppure con rezze o con pezzilli attorno.
La biancheria e il vestiario
Gli indumenti intimi femminili e d’abbigliamento presentati nella dote matrimoniale, variavano secondo la condizione sociale delle famiglie dotanti. Elementi necessari erano le camise, da un numero di uno a cinque. I tessuti utilizzati erano: di tela d’Olanda, di tela di Bari, di tela d’Andria, d’orletta oppure di lino. Nel numero minimo è precisato per la settimana per specificarne l’uso quotidiano e il tessuto descritto era di tela di casa.
Gli asciugamani o mandili si presentavano nel numero minimo di due, a un numero massimo di cinque. Anche per questo capo erano utilizzate le stesse varietà di tessuti descritte per le camice. Le lavorazioni non erano sempre descritte forse perché non sempre erano presenti. Alcuni decori erano i pizzilli oppure le cordelle.
Altri elementi essenziali della dote erano le tovaglie da tavola, le quali sono descritte secondo la grandezza della tavolata e misurata a brazzi (braccia). Di solito erano elencati i grembiuli chiamati sinali o avantisini, in numero da tre a cinque. Spesso erano di diversi materiali come di lana o di tela, oppure di rezza listato (bardato) o di seta negro, etc.
I fazzoletti erano chiamati stiavucco, faccioletto oppure tovaglioli in numero da uno a quattro. Per la testa ne erano donati di solito alcuni di tela di casa per la settimana (per uso quotidiano), altrimenti decorati colli pizzilli (merletto) oppure d’orletto per le occasioni particolari.
I vestiti donati dal dotante erano spesso di saja in una quantità fino a cinque pezzi, dai colori: giallo, turchese, color di cannella, color muschio, color cerasella.
Ornamento e gioielli
Non sempre presenti, ma in cinque casi di contratti dotali confrontati in questo studio, sono annotati alcuni gioielli di diverso tipo qui elencati: una sorta di coralli, una sorta di coralli rossi a tre file, uno collaro di corallo con tre noce dargento, due fili di coralli rossi e un laccetto d’ambra, un paja di scioccaghie (orecchini) d’oro.
L’arredo della casa e della cucina
Indispensabile per la sopravvivenza della popolazione materana era la produzione del grano. Quasi ogni famiglia possedeva all’interno della propria abitazione uno cascione d’apeta (cassone di abete) per contenerlo, spesso di colore verde o di legno vivo e di capacità tra i tredici e i venti tomoli. Alcune suppellettili elencati erano di rame, e tutti necessari per la cucina. In alcuni casi si descrivevano, indicando il peso del metallo misurato in libbre, stimandolo fra tre e nove. Non mancavano la sartagina (padella), e una caldara. Un paro di camastre (catene) a tre maglie di ferro, servivano a tenere sospesa la caldaia sul piano della cucina.
Donazione di beni e di denaro
Assieme al corredo, agli immobili e ai preziosi la sposa poteva ricevere dal dotante una piccola somma in denaro. In cinque contratti matrimoniali dei secoli XVI e XVII, compare in primis una lettera di campo o di cambio. Tale documento si riferisce a una sorta di assegno bancario, con il quale era possibile riscuotere la somma di denaro riportata.
Tutti i nostri casi esaminati riportano in calce i beni immobili sempre rappresentati da case e qualche volta in aggiunta anche da pezzi di terreno (pastino). L’importanza degli stabili e terreni era nel contratto dotale, fondamentale per tutelare la sposa durante il suo matrimonio. Infatti, il marito non potrà vendere tali patrimoni e se lo farà dovrà restituire la somma di denaro ricavato alla moglie oppure alla famiglia di quest’ultima. Tali beni resteranno duraturi, mentre gli altri averi saranno nei tempi utilizzati e consumati dai coniugi.
3.4 Significati e memorie degli oggetti tramandati
di Antonella D’Auria
Gli oggetti ubicati all’interno della Storica Casa Grotta e quelli posti nell’abitazione di Vincenza Vizziello presentano un livello alto di pregnanza simbolica.
Gli oggetti vengono utilizzati in questi contesti, tanto nel museo quanto nell’abitazione di Vincenza, per creare legami “a posteriori”. Le foto, ad esempio, all’interno della struttura museale servono a “dare un volto” a coloro che avevano vissuto quella dura realtà, che avevano utilizzato la stragrande maggioranza degli oggetti attualmente esposti, ricreando così mentalmente scene di vita quotidiana, mentre in casa Vizziello le foto assolvono la funzione di “supporti di memoria collettiva” per “presentare” la propria famiglia a terzi e dalle quali scaturiscono racconti di vicende familiari.
Ovviamente il significato di un oggetto è legato al luogo in cui questo viene esposto: la Storica Casa Grotta è composta da un unico ambiente, dove sono gli arredi a creare una divisione astratta degli spazi.
Oggi mancano tante caratteristiche di quella che era una casa vissuta dei Sassi come le famiglie numerose (generalmente formate da circa sei-sette membri, la famiglia Vizziello era composta da undici persone) gli odori, gli animali, per questo sono gli oggetti e gli arredi i mediatori culturali e fungono da intermediari con il passato consentendo la continuità nel presente sotto forma di memoria e proprio perché gli oggetti esposti nel museo non sono stati estratti dal loro contesto, esprimono in pieno la loro funzione in relazione a tutti gli altri oggetti ed arredi.
Esaminando l’ambiente domestico della signora Vizziello, questa è composta essenzialmente da una stanza da letto, una cucina, un salotto, una stanza da lavoro e da un bagno. Qui la divisione degli spazi non è virtuale come per la Casa Grotta, ma ben delimitata da solide mura e anche gli oggetti presenti vengono così ripartiti in base alla loro destinazione d’uso.
Ciò che più caratterizza l’abitazione di Vincenza è l’unione di oggetti appartenenti al passato accostati a quelli di ultima generazione, dove i primi fungono da oggetti di esposizione. Hanno catturato la mia attenzione la stanza da letto e il salotto. Nel primo ambiente vi è una convergenza di elementi datati e nuovi, elementi che ricordano la sua infanzia, che ricalcano la sua personalità, il suo credo. Sono presenti gli arredi basilari: un letto matrimoniale, le cui lenzuola facevano parte della sua dote, armadi, sedie, comodini e un altarino con figure religiose a cui Vincenza tiene particolarmente, risalente al periodo del suo matrimonio. Fra gli oggetti e accessori emergono specialmente fotografie della sua famiglia, del marito defunto, souvenir, bomboniere. Nel salotto, le vetrine presenti contengono le cose più delicate e preziose, ma niente viene conservato, tutto viene messo ben in vista, come i bicchieri di cristallo. Gli scaffali presenti sono tutti adibiti a contenere fotografie dei nipotini, dei figli nel giorno del loro matrimonio. Si differenzia dal resto della casa la stanza da lavoro, usata come spazio per riporvi oggetti non usati quotidianamente, ma non per questo meno importanti. Infatti, lì era stata collocata la macchina da cucire della madre di Vincenza, posta in un angolo e non gettata via, non perché fosse una “rara, antica edizione”, ma perché, anche se oramai non veniva più utilizzata, le ricordava la sua infanzia, le ricordava sua madre.
Il filo conduttore tra la Storica Casa Grotta e l’abitazione di Vincenza sono i legami e i ricordi; attraverso gli oggetti presenti si ritrova il proprio senso di appartenenza e diventano parte di quel “puzzle”, dove ogni pezzo unito ad un altro porta alla formazione della propria identità. Ecco perché gli stessi membri della famiglia Vizziello e i materani in generale ritornano più e più volte a “visitare la propria prima casa”.
Ritrovare il senso delle proprie radici culturali, attivando processi di costruzione identitaria è l’obiettivo delle rappresentazioni museali, come appunto la Storica Casa Grotta di Vico Solitario, dove si assiste alla fusione di più dimensioni (lavorativa, domestica) e in cui tutti gli oggetti, gli attrezzi, gli arredamenti incorporano memoria vissuta, caricandoli di senso e valore. Attraverso la loro esposizione, all’interno del loro originario contesto, essi amplificano le loro funzioni e quella memoria che appartiene a chi li ha utilizzati e vissuti passa da memoria vissuta a memoria comunitaria, condivisa con le nuove generazioni, questo proprio perché gli oggetti non sono semplici strumenti di documentazione, ma mezzi di conoscenza della memoria passata all’interno dei loro “habitat”.
Nella Storica Casa Grotta avviene un fenomeno particolare: in seguito all’espropriazione dell’abitazione gli arredi e gli oggetti utilizzati quotidianamente vennero portati via, la casa venne svuotata, ma in un secondo momento ritornano nel loro contesto primario a testimoniare la loro funzione originaria, incorporando significati e memorie. Questi manufatti del passato hanno così subito un cambiamento della loro destinazione d’uso: da oggetti di uso quotidiano sono diventati oggetti di antiquariato e in seguito oggetti d’esposizione.
In questo caso gli oggetti perdono sì la loro utilità iniziale, ma non la loro identità, esprimono pienamente la loro funzione in relazione a tutti gli altri oggetti ed arredi, delineando la società a cui essi appartenevano, ossia quella contadina.
La continuità familiare spesso viene garantita dalla memoria culturale.Un oggetto rimosso dal proprio “ambiente” originario perde la sua funzione primaria acquisendo connotazioni differenti, ma all’interno dell’ambito museale della Storica Casa Grotta gli oggetti, prima sradicati dal loro settore originario, vi ritornano per perpetuare nel tempo proprio la loro funzione primordiale, costruendo attorno a sé un alone di racconti e di memorie sia da parte di coloro che in prima persona li hannoadoperati, sia da parte di chi porta con sé i risultati di una trasmissione orale inerente all’uso.
La Storica Casa Grotta pone la sua “anima” negli oggetti e negli arredi esposti, che nel complesso fungono da mediatori culturali e raccontano la vita quotidiana di coloro che hanno vissuto nei Sassi.
Il tramandare memorie non è altro che una forma di “storia” che viene trasmessa attraverso gli oggetti, poiché essi, come le parole, comunicano significati.